Buongiorno Impertinenti e benvenuti al BlogTour dedicato al nuovo romanzo di Chiara Panzuti:
Absence, l'altro volto del cielo
In uscita il 10 maggio grazie alla LainYA!


Genere: Fantasy
Casa editrice: LainYA
Data di Uscita: 10 Maggio 2018
Prezzo: € 15

Sinossi: In L’altro volto del cielo, nuovo capitolo della trilogia di Absence, è trascorso appena un mese dall’inizio del gioco insidioso di cui l’uomo in nero tiene le fila, e le coordinate dell’ultimo biglietto conducono Faith e i suoi compagni a Est. L’invisibilità è diventata per Faith, Jared, Scott e Christabel una strana routine, per sopravvivere in un mondo che non ha memoria di loro, e il motivo che li spinge a continuare il viaggio intrapreso per tornare a esistere. Ma il siero NH1 comincia a indebolire il fisico dei ragazzi e la conquista dell’antidoto si fa sempre più indispensabile. Soltanto Faith sembra resistere agli effetti collaterali e sviluppa un’inaspettata prontezza fisica e mentale. Sotto l’ombra dell’Illusionista e sulle tracce dei biglietti dell’uomo in nero, i ragazzi della squadra Gamma fronteggiano più volte le squadre degli Alfa e dei Beta: il gioco, però, comincia a svelare il suo lato crudele, che non accetta provocazioni né debolezze. Dopo uno scontro violento con una squadra avversaria nella base navale di Changi Bay, a Singapore, Faith scoprirà alcuni risvolti delle regole spietate dell’Illusionista e si troverà faccia a faccia con l’altro volto della competizione e di se stessa. Secondo volume della trilogia, L’altro volto del cielo mette in scena la battaglia interiore che divide Faith tra la lealtà verso i suoi amici e la fascinazione per un futuro da combattente, dimentica di tutti e da tutti dimenticata. A cosa saremmo disposti a rinunciare se ci venisse offerta una nuova possibilità per riaffermare noi stessi? La nostra identità consiste più nel ricordo di ciò che eravamo o in ciò che ancora possiamo essere? Un libro magnetico e profondamente attuale, dove la battaglia più difficile è quella con noi stessi.

Serie "Absence"
#2. L'ALTRO VOLTO DEL CIELO
#3. La memoria che resta (Prossimamente)


ABIGAIL

La routine uccide.
Soprattutto quando sei costretto a percorrere lo stesso tratto di spiaggia ogni giorno, per venti giorni consecutivi. Ormai odiavo ogni angolo di quell’isola, dalle zone più affollate al perimetro in cui eravamo rinchiusi, una zona d’ombra che ci proteggeva da visitatori indiscreti. L’orizzonte era sempre lo stesso, piatto e svogliato, e la mancanza di panorama si adattava perfettamente all’assenza di prospettive. Solo umido, caldo e zanzare.
Riuscivo ad allenarmi, questo sì. Mantenevo attiva la parte del corpo che ancora reagiva, convinta di poter fare la differenza. Correvo ai confini del mio carcere ogni mattina e ogni sera, dosando il respiro, calmando la rabbia. Sfidavo i muscoli a resistere, mentre li sottoponevo a un ritmo sempre diverso. Montavo e smontavo il caricatore della pistola almeno tre volte al giorno, così da non perdere l’abitudine. Era essenziale per non soffocare nella monotonia, che rischiava di cancellare la me del passato, insieme a tutti i suoi sforzi.
Non potevo cadere in un tranello simile. Troppo facile, troppo scontato. Perdere i gesti naturali di un tempo e scivolare in un’altra dimensione, più bassa e fangosa, in cui probabilmente sarei rimasta per sempre. Io avevo uno scopo, Benjamin aveva un piano, e insieme a lui potevo salvarmi, esattamente com’era accaduto in passato.
Lo hai già dimostrato a te stessa, Abigail. Devi solo resistere.


SEBASTIAN

Due minuti di silenzio.
Valeva la pena nascondersi in quella discarica per due fottuti minuti di silenzio. Era l’unico posto in cui stare tranquilli, almeno fin quando la mia assenza non fosse stata notata, e anche in quel caso speravo che se ne guardassero bene dal venirmi a cercare.
Tirai fuori il pacchetto di sigarette e lo ammirai come un trofeo. Ogni istante, dall’alba fino a sera, aveva senso in funzione di quel momento: l’attimo in cui potevo fumare.
Grazie. Grazie. E ancora grazie.
Poggiai la schiena contro il bidone della spazzatura, e diedi le spalle al mare. Preferivo guardare i topi di fogna piuttosto che l’oceano, e dopo venti giorni di panorama forzato avrei dato fuoco alla spiaggia intera. Il solo pensiero dell’acqua mi faceva venire la nausea.
Afferrai una sigaretta a caso, ma il tabacco era fradicio. Che rottura. Controllai il resto del pacchetto e trovai la gemella più asciutta. Avanti di quel passo mi sarei deciso ad aprire un contrabbando di cicche inglesi, ben altro rispetto a quello schifo asiatico, che non resisteva neppure al mio sudore.
Accostai l’accendino al viso e aspirai, facendo scivolare via il nervosismo dalle narici. Non so come avrei fatto senza nicotina: a parte aspettare, aspettare e aspettare, in quel luogo non c’era niente con cui distrarsi. Un solo godimento al giorno, dato che il resto era negato, sperando di poter tornare presto a una vita normale, una volta portata a termine la nostra pagliacciata.
Com’ero finito in quel casino? Andare a rivendere sardine al mercato del pesce sarebbe stato più costruttivo. Tutto merito dei miei genitori e della loro idea di mettermi al mondo. Colpa della loro arroganza, e probabilmente anche della mia. Di padre in figlio, si dice.


BARRETT

Dovevo prendere a pugni qualcosa, e non c’era niente da prendere a pugni in quel posto. Sinceramente non ne capivo il motivo.
Ci avevano detto che saremmo stati equipaggiati, ma io vedevo solo l’attrezzatura di base. Mi stava bene la pistola, apprezzavo i coltelli, ma che fine avevano fatto gli allenamenti? Era forse troppo pretendere due metri di palestra in cui esercitare un po’ i muscoli?
Nessuno si era premurato di portare il mio kit di pesi, o il sacco da boxe. Avevo una spiaggia, delle palme e un alloggio destinato a crollare sotto il primo tifone. Abigail correva dalla mattina alla sera, ma io non ero mica una donna. Le donne corrono in riva al mare, gli uomini hanno i pesi. Quindi che razza di equipaggiamento era quello? Ci avevano fregati. Venti interminabili giorni di fregatura, e io avevo bisogno di sfogarmi.
Vagai fuori dalla dépendance mangiando un pezzo di pollo. Lo avevo rubato dalla cucina cercando di non farmi notare, perché quella sera non mi andava di cenare in compagnia. Ero stufo di vedere persone – ironia della sorte, nella nostra situazione –, e avrei pagato oro per i vecchi poligoni di tiro, dove l’unico suono era il rimbombo attraverso le cuffie.
Ipocriti bastardi.
Ero il loro asso nella manica e non l’avevano capito. Punteggio massimo in tutte le discipline, per poi ritrovarsi in ginocchio sullo zerbino di casa. Se il mio problema era l’autocontrollo, il loro era di certo l’essere miopi. E alla fine mi trovavo su un’oasi dorata, a divorare pollo asiatico senza nient’altro da fare.
Serrai le nocche, e colpii con rabbia la porta del bungalow. Le ossa mandarono una fitta di dolore, mentre la superficie si frammentava in una rosa di crepe. Dio, che liberazione. Scossi mano e polso per mandare via il bruciore e tornai al mio pollo, abbastanza soddisfatto dello sfogo serale. Tutto sommato bastavano un paio di destri per rimettere le cose a posto, e presto o tardi qualcuno mi avrebbe dato una palestra.
Una palestra enorme, ancora più bella di quelle del centro.
Avanzai nella vegetazione tirando calci a caso, una ginocchiata ai tronchi, un colpo di tacco alle radici, uno sputo ben assestato sulla sabbia. Sentivo l’odore della mia vecchia vita anche da là, era peggio di un richiamo. Non esistevano effetti collaterali nel mio corpo, solo le corde del ring, e semmai era il siero ad avere paura di me.
Barrett sapeva benissimo dove e quando tornare.


EPHRAIM

Tagliai la benda in due ed eliminai ciò che restava del cerotto con uno strappo.
La ferita di Cerro Bandera si era rimarginata, e la cicatrice non sembrava poi così accentuata. C’erano state ammaccature peggiori, anche se quella era in un punto davvero scomodo e rendeva difficile il movimento della spalla.
Avevo disinfettato la lesione per tre settimane di fila, ma ormai era guarita, così decisi di lasciar perdere e infilai di nuovo la maglietta. Non era la ferita in sé a irritarmi, quanto il fatto che avevo perso un bel coltello, e l’armeria non forniva granché ultimamente. Avevo rimediato una brutta copia dell’arma di Barrett, ma non c’era paragone con il vecchio pugnale intarsiato, e questo mi infastidiva parecchio.
Spinsi la testa sotto il lavandino e lasciai che l’acqua scorresse lungo il collo. Per quanto fossero le undici di sera, faceva ancora un caldo disumano. Mi asciugai con la maglia, sperando di rinfrescare anche quella, e afferrai la pistola appoggiata sulla ceramica del bordo vasca. Controllai che ci fosse la sicura prima di portarla sul patio, dove la versione arcigna di mia sorella stava seduta per terra.
Indugiai qualche minuto alle sue spalle: dopo vent’anni riuscivo ancora a coglierla di sorpresa. E pensare che era lei quella agile e aggraziata, capace di camminare come un fantasma a due metri da terra, senza che nessuno la sentisse arrivare. Io non ero così scaltro a tendere agguati, ma con lei funzionava sempre, e questo succedeva perché si fidava. Era un esperimento sociale piuttosto interessante: Abigail conosceva a memoria il rumore dei miei passi, stava in qualche sezione del cervello sotto la scritta «NESSUN PERICOLO». Per questo non riusciva ad avvertire la mia presenza, come se le nostre ombre si risolvessero in un unico Io.
La fiducia è un’arma a doppio taglio. Da una parte mi lusingava, dall’altra speravo non si fidasse mai di nessuno allo stesso modo. Volevo che restasse arrabbiata, sospettosa, con tutti i suoi scudi a difenderla.
Ancora per un po’, Abby. Fin quando la situazione non si sarà sistemata.

Ma il BlogTour non finisce qui! 
Seguite le altre tappe:



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